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La Danza del Tempo

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PREFAZIONE A

LA DANZA DEL TEMPO

di Giusy Randazzo

Filosofo, Direttore Centro di Formazione Psicofilosofica di Genova

 

 

Il tempo interiore

 “Nulla si crea, niente si distrugge, ma tutto si trasforma”

La danza del Tempo inizia con la citazione del primo principio della Termodinamica e lo spettatore, in quanto uomo, sembra da subito avvertirsi come erma bifronte. La sua naturale finitezza, che lo annovera tra coloro che muoiono, secondo un’antica definizioni omerica, si ritrova superata dalla scintilla di infinità che è in lui e che gli rende in qualche modo la sua spiritualità.

E se sono atomi, come pensava Lavoisier o quark, come dedussero i fisici dopo Einstein, non importa. Non è a questa energetica eternità che si riferisce La Danza del Tempo, ma a quanto di impalpabile vive oltre l’apparenza sensibile. Quando la voce recitante, quasi desse parola alla coscienza collettiva, irrompe nell’armonico fluire della musica si amplifica la percezione dell’essere nella sua manifestazione temporale e lo spettatore non può che dare il proprio personale assenso alla riflessione.

Mentre i suoni riprendono ad intrecciarsi costruendo rapidi percorsi mentali vivificati dalle immagini, un dàimon suggerisce e sussurra, pur senza dire, che siamo molto di più di un mero assemblaggio di membra, che l’infinito spaziale e temporale è molto di più di una formula e che la formula stessa è molto di più di un insieme di dati sensati. Si coglie la bellezza, come categoria; la potenza straordinaria dell’immagine astrale, come unyo mystica, unione mistica, con una realtà normalmente inafferrabile dai nostri miseri sensi umani. 

Cos’è il passato? Non è forse ciò che va al di là del puro meccanicismo attestato dai sensi che ci permette di presentificarlo? Di renderlo vivo nel presente, consentendoci di superare la freccia del tempo, quasi obbligandola a tornare indietro?

Il ritorno del passato non altera solo il presente, come in un primo momento sembra convincersi la voce recitante, ma lo stesso passato. L’evento ricordato non è mai ciò che è accaduto oggettivamente, ma quanto soggettivamente permettiamo che accada. In tal senso produce costantemente effetti, in una continua riedizione che ne cambia l’alternarsi originario sino ad arricchirlo o a deprivarlo.  Chi agisce non è il passato per proprio conto, ma l’individuo che l’ha vissuto e continua a riviverlo, traducendo in realtà ciò che è irreale, ciò che solitamente si chiama memoria. Il mondo in cui vivo, che sembra scorrere anche senza di me o indipendentemente da me, diviene, attraverso la mia rappresentazione, che ha potenti effetti di realtà, il mio mondo, lo stesso che alla mia morte non si altera ma, semplicemente, cessa, come sosteneva Wittgenstein.

Nel prosieguo dell’opera, si approda proprio a questa convinzione. L’intelletto, però, abbisogna di un’ulteriore analisi per giungervi, che osservi il futuro, per poi tornare al presente e comprendere ancora di più: il mio mondo cessa alla mia morte solo per l’altro da me.

Durante il quarto tempo del primo atto, si delinea la nuova domanda, il nuovo ti estί, che cos’è, che in attesa di risposta ricorda l’assenza di fisicità del futuro.

Esiste forse il futuro? Ha la concretezza anche solamente dell’essere stato? Giammai. Il futuro è tale solo in virtù del suo non essere o, se vogliamo, del suo poter essere. Ogni evento avverrà in un presente velocemente risucchiato nel passato e pronto ad essere nuovamente presentificato e cambiato.

E’ questo il motivo per cui nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma? Questo il motivo per cui tutto ritorna?

Forse perché lo scorrere, il fluire dell’attimo, avviene dentro di noi?

Giunge l’intuizione, portando con sé la certezza che non esista linearità nel nostro tempo interiore, piuttosto una circolarità che, se avessimo consapevolezza di vivere, potremmo persino dominare. Nietzsche sosteneva che nonostante non ci si possa sottrarre dall’eterno ritorno dell’uguale, abbiamo stoicamente la possibilità di poter scegliere ogni istante, non facendoci trascinare dagli eventi, ma seguendo volontariamente quanto la vita ha in serbo per noi e che in fondo è il risultato di ciò che siamo.

La Danza del  Tempo non tralascia l’importanza di una fondamentale categoria concettuale: l’accettazione. Per quanto difficile, per quanto orrendamente mutilante, questo tempo fisico è il tempo di ognuno, che ci individua soli in mezzo agli altri, soli come tutti gli altri[1].

-E con un lamento / seguo il tempo che c’è in me - canta la donna illuminata a conclusione del primo atto. E’ proprio il tempo interiore che ci rende la nostra spiritualità infinita e ci scopre come esseri unici e irripetibili.

Le leggi fisiche, che sembrano riunirci tutti in un’unica categoria, sono rivissute alla luce della nuova percezione dell’universalità e della soggettività.  Dall’offuscata rappresentazione di un’umanità che vive lo stesso tempo finito, nello stesso luogo finito, governato dalle stesse leggi meccanicistiche e deterministiche, si arriva, man mano che l’opera ha luogo, come se lo spettatore venisse fornito di una lente di ingrandimento, all’immagine di ognuno. L’io e il tu sono ora rappresentati del nuovo tempo e del nuovo spazio, che perdono le caratteristiche fisiche proprie della totalità anonima per acquisire quelle dell’interiorità spirituale di ciascuno di noi. Il singolo comprende così di vivere in una continua evoluzione, che ha solo i tratti esteriori della fisicità, che verranno persi definitivamente all’ultimo stadio rappresentato dalla morte, ancora una volta vissuta, pur nel suo lato tragico, come ulteriore trasformazione di sé.

Attraverso la musica, le parole, la rappresentazione, le immagini, attraverso questa nuova alleanza tra le arti si confluisce in un unico delta in cui il “tutti” si  risolve in “ognuno”; in cui la massa si scinde perché ciascuno ritrovi il proprio volto, avvertendo la propria irriducibilità, che neppure la morte può più minare. La stessa solitudine che la caratterizza si apre alle altre solitudini, lasciando da parte il fondo di angoscia che genera.

 

La folle morte e la follia mortale

 

Ciò che non si conosce genera angoscia, una sorta di paura senza oggetto e la morte non la si conosce. I greci, però, non la temevano, semplicemente perché accettavano il lato tragico della vita. L’amor fati  era accettazione profonda del mistero della morte, era inno alla vita, che proprio l’esistenza incomprensibile del suo contrario, rendeva possibile. I greci  non perdevano di meravigliarsi osservando il cielo, in cui continuavano a cercare Dio, mentre disegnavano le costellazioni che, noi, uomini vecchi, sappiamo non esistere se non come ingannevole apparenza.

Così come siamo certi che Dio non sia nei cieli. I telescopi ce l’hanno detto. Nel profondo cielo c’è violenza, ma Dio non c’è. E noi crediamo solo a quello che la scienza ci ha insegnato. Il Sole non si muove e neanche le stelle, pur se sembra così. E quanto siamo orgogliosi di insegnare ai nostri figli che la realtà è ingannevole, che siamo noi a muoverci dentro un pianeta che gira indifferente alla nostra volontà. Sulla spiaggia, in una bella serata estiva, distesi piacevolmente ad ammirare lo Scorpione che si staglia a sud, con il suo bel rubino brillante, Antares, non possiamo accogliere romanticamente la serenità, l’equilibrio e la quiete che sembra imperare, perché è tutto apparente. Lo Scorpione non esiste e l’universo è violento, nient’affatto silenzioso e costantemente in guerra. Noi lo sappiamo, ce lo ha insegnato la scienza. Mai ci domandiamo se era proprio questo, però, il messaggio che voleva far passare. Le immagini che scorrono nell’opera invitano a non rinunciare alla meraviglia, ma a continuare ad affidarsi ad essa con rinnovato stupore, nonostante le conquiste conoscitive.

Nessuno mai ci ha chiesto di rinunciare a quanto di spirituale c’è in noi, alla nostra immaginazione, alla nostra intuizione, a cercare Dio dentro e fuori di noi.

L’inganno dei sensi da cui ci siamo salvati con il progresso scientifico ci ha fatto approdare ad un inganno ancora peggiore: la convinzione di essere meri enti di natura.

E forse abbiamo perso la nostra identità nello stesso modo. Anch’essa si è ritrovata sotto i riflettori e, vivisezionata, ha perso la sua unità.

Eppure, noi uomini abbiamo bisogno di conoscere per ridurre la nostra angoscia. E così nel tentativo di capire i nostri moti d’animo, di fugare i nostri dubbi, di risolvere i nostri nodi problematici, di guarire dalla morte, di allontanare l’ombra della follia, cerchiamo un phάrmăkon, un rimedio, che sia uguale per tutti, come se tutti fossimo uguali, come se le leggi che governano la natura, che governano i nostri corpi, potessero, con la stessa riproducibilità, essere applicate alla nostra anima. Se in natura due enti sono uguali, se, insomma, non si possono distinguere, allora sono lo stesso ente: eadem sunt, quorum unum potest substitui alteri salva veritate[2]. In sostanza, siamo tutti diversi oppure un unico ammasso, come quello stellare, ma più indiscernibile. Noi optiamo sempre per la seconda possibilità.

Mentre ci affanniamo a togliere il velo, lasciamo che l’intelletto divida, perdendo così l’intuizione illuminante della Ragione unificante. E cosa accade? Che anziché ridurre l’angoscia, questa diventa timore, una paura che ha un oggetto preciso: la folle morte o la follia mortale, eredità del dualismo cartesiano. Una forma di strabismo, di movimento erratico tra due poli parimenti terribili, morte e follia, che ci impedisce di vedere l’unità della nostra psyché mortificata dalla conoscenza, di cui abbiamo fatto cattivo uso.   

Per un verso, sentiamo di aderire sempre meno a quel modello di normalità che le scienze umane e non, hanno involontariamente  costruito, nel giusto tentativo di tenere sottocontrollo quella che Galimberti chiama follia secondaria. Temiamo che la nostra mente scivoli nell’abisso della follia, finendo per aver paura di noi stessi, dei nostri pensieri originari, non sempre in linea con l’attesa sociale.

Per un altro verso, ci avvertiamo come un insieme molecolare, unitosi per caso e pronto a disperdersi in un cosmo senza coscienza di sé.

L’abbiamo voluto noi. Abbiamo preferito cogliere questo lato delle scoperte scientifiche. Eppure, nessuno mai ha dimostrato che Dio non esista o che dopo la morte la nostra identità cessi di essere. Non c’è un luogo nel nostro essere fisico in cui la scienza possa dire si trovi la nostra identità. Sappiamo dov’è il cuore, il fegato, vediamo dove sono le mani, gli occhi, impariamo che, per apprendere, i neuroni si uniscono tra loro, ma nessuno ci può dire dove stia la nostra identità.

Siamo soliti, insomma, guardare sempre nella stessa direzione. La danza del Tempo ci insegna a riflettere da un altro punto di vista.

La morte fa paura, ma l’uomo sa che qualsiasi realtà non vissuta conserva un gradiente di possibilità infinite. Eppure ci siamo concentrati sulla certezza che la morte dell’uomo non rientri nel primo principio della termodinamica, monito iniziale e finale de La danza del Tempo: nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma. O forse, peggio, ci crediamo, ma in che senso? Come trasformazione della nostra materia in cenere e fumo o in altro, persino troppo orrendo a dire o ad immaginare. Abbiamo, insomma, volontariamente rinunciato alla nostra parte spirituale, che sembra non esistere se non come autocoscienza di sé attraverso l’altro. E l’altro muore. Noi non possiamo esperire la sua morte, se non come fine. In questo si conclude la nostra conoscenza della morte. L’attimo dopo l’ultimo respiro, ci è ignoto o noto come conclusione definitiva. La fede salva il credente, rendendogli un senso su cui deve scommettere costantemente.

Non ci sono davvero altre strade?

“Voi uomini volete avere sempre tutto sottocontrollo/ volete sempre sapere tutto di tutti e conoscere la fine di ogni cosa/…e se la fine per qualcosa non ci fosse?/ accettate anche i dubbi e impegnatevi a capire qualcosa di voi stessi e degli altri/ quello sì che è tempo giustamente speso/ [...] dovete accettare anche il fatto che possano esserci dei misteri…”

Ciò che sfugge al controllo dei sensi, è colto dall’intuito. La morte vissuta come evoluzione, non è diversa dalla giovinezza o dalla vecchiaia e forse è meno tragica.

Perché dovreste aver paura di me?” domanda la Morte nel secondo atto “Perché vi porterei sofferenza?/ Ma è la vita che porta sofferenza”.

Con la nascita viene meno la speranza di non soffrire, questo sembra certo quanto la morte, certezza che non possediamo negli istanti che si succedono dopo l’addio alla vita. Nessuno ha alzato la mano tra la platea quando la vecchia artista chiede:

“C’è forse qualcuno in sala che non ha mai sofferto fino ad ora? Se c’è…che alzi la mano..[…] nessuno”

L’ultimo alito precedente alla morte è ricco della stessa speranza conclusa col primo vagito.


Conclusioni

 

La danza del tempo ci ricorda che se si alzano gli occhi al cielo, si può ancora godere della gioia di una visione romantica; che l’infinità la si può trovare dentro di sé considerandosi come segmento di una retta infinita ed eterna; che coloro che temono la morte sono toppo innamorati di sé in quanto essere fisici per accettare l’illogica spiritualità dell’io unificante.

Ascoltando e vedendo La danza del tempo, si avverte l’angoscia, si misura la paura, ma alla fine, pur passando per la via stretta, si giunge all’isola felice della serenità.

Ma state attenti, è un attimo.

Appena fuori dal teatro avvertirete nuovamente lo spaesamento, inghiottiti dalla folla inautentica e anonima, dai rumori indistinti, dalle immagini rapide, dal meccanicismo di ogni singola azione. Dovrete ritornare più e più volte, perché la saggezza, acquisita in un lampo, non sia effimera e metta radici stabili nella vostra anima.

Però, credetemi, ogni volta sarà  un approdo felice come quello dell’esule che ritrova la patria a lungo agognata.

 

Genova, 30 giugno 2007                                            Giusy Randazzo



[1] Citazione di Lino Missio: “Io solo in mezzo agli altri, io solo come tutti gli altri”.

[2] Principio degli indiscernibili di Leibniz

 

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