EDUCAZIONE ALLA AUTONOMIA ED ALLA INDIPENDENZA
Breve saggio pedagogico scritto in fretta…
Normalmente una persona raggiunge un buon grado di maturità, individuale e sociale, quando è in grado, in completa autonomia, di pensare ed agire in modo autosufficiente. Una persona indipendente è tale quando è in grado di condurre la propria vita, in linea di massima, senza che interventi esterni di qualsiasi tipo possano essere ritenuti necessari al raggiungimento di determinati obiettivi importanti per la formazione di un soggetto maturo: quale, ad esempio, la capacità di determinare auto-responsabilmente, mediante scelte consapevoli, il proprio futuro. Una persona è ritenuta responsabilmente indipendente quando è in grado di pensare e, conseguentemente, di agire in modo da determinare autonomamente la propria strada nella vita, senza che la capacità di operare delle scelte individuali possa dipendere da altri o senza che altri si sentano sempre in diritto di influenzare costantemente la capacità di scelta auto-determinativa della vita di una qualsiasi persona o senza che la società, con la sua organizzazione mastodontica, impedisca al singolo di compiere delle scelte, di qualsiasi natura esse siano, purché non auto-lesive o lesive. Questo sia che si tratti di stretti familiari, sia che si tratti di amici, sia che si tratti di persone terze.
Il rispetto della volontà individuale appare irrinunciabile in una società ove i diritti delle persone non sono delle condizioni a contorno del vivere in società, bensì dei valori fondanti la medesima società. Una società è tanto più civile quanto più è in grado di garantire il rispetto dei diritti degli attori sociali e quanto più è in grado di rispettare la volontà del singolo individuo che si manifesta nella sua libertà di scelta. Una organizzazione sociale che non rispetta i diritti dei singoli (indipendentemente dalla relativa estrazione sociale e/o culturale) o che rende difficile il rispetto dei diritti non può dirsi ancora una società civile, bensì una società alla ricerca della sua civiltà. Tanto meno una società che richiede l’uso della “conoscenza”, per vedere riconosciuto un semplice diritto, può dirsi civile. Elementarmente un semplice diritto (un diritto è sempre semplice, poiché se è un diritto dovrebbe essere sempre semplicemente riconosciuto), quando il suo riconoscimento è dipendente dalla volontà di una o più persone qualsiasi bisognose di una sollecitazione di un intermediario per agire nella direzione del riconoscimento del diritto, non è più un diritto. Un normale diritto diventa un privilegio e, per altri individui esclusi dalla rete sociale delle conoscenze, questo diritto diventa un regalo a discrezione (che si può o non si può fare, pur se si deve sempre riconoscerlo in quanto diritto). Una società dove la domanda: “Conosci qualcuno?” sia d’obbligo ogni qual volta si ha bisogno di un qualcosa del quale si ha semplicemente diritto, non è una società civile ma una società che propone differenze, favorisce le ingiustizie, forma centri di potere invece di centri decisionali ed operativi.
Analizziamo brevemente le relazioni di dipendenza che rendono difficile uno Stato di diritto.
Tutto parte dall’educazione familiare che difficilmente spinge il soggetto in crescita verso un pieno e totale processo di acquisizione di autonomia ed indipendenza. Una certa buona dose di eccessivo familiarismo fa sì che si educhi nel contesto di una rete di relazioni affettive che si caratterizzano come delle vere e proprie patologiche dipendenze affettive, rette da sottili e delicati meccanismi di sensi di colpa. In primis è difficile crescere sviluppando autonomia ed indipendenza in un contesto culturale familiare che si regge su una educazione che fa del senso di colpa un meccanismo di regolamentazione degli equilibri relazionali ed affettivi familiari. Non rispettare la volontà di un genitore, per un individuo maggiorenne ancora dipendente dal suo nucleo familiare di origine, rappresenta ancora, nel nostro contesto culturale, una implicita offesa al genitore stesso che spesso opera delle scelte fortemente influenti e determinanti la vita del proprio figlio (decidendo per lui ad esempio) senza preoccuparsi troppo di educare il figlio alla capacità di compiere delle scelte autonome, autosufficienti e consapevoli che lo instradino nella vita verso una totale e completa indipendenza. Vi è una sorta di implicito e nascosto senso di possesso che i genitori, nella nostra cultura, covano nei riguardi dei figli. Senso di possesso che appreso passivamente si impara a metterlo in pratica attivamente e si trasmette anche nel mondo del lavoro (il capo, ad esempio, dice “i miei dipendenti” ed esiste sul lavoro la logica del “buon padre di famiglia”). Questa logica della dipendenza affettiva si trasmette a tutto il nostro impianto di organizzazione societaria. Da questo tipo di cultura familiare si impara a subire una quantità innumerevole di azioni e decisioni riguardanti la propria persona, senza che queste azioni e decisioni esterne siano state adeguatamente interiorizzate dal soggetto che le subisce. Ci si fida, spesso, delle decisioni dei genitori (sovente culturalmente si dice che “lo si fa per il bene dei figli”) senza una opportuna educazione al senso critico e al processo di acquisizione dell’autonomia individuale, garante del concetto di indipendenza, senza la quale un individuo non può dirsi veramente maturo. E’ vero che genitori lo si è sempre. Ma da un certo punto in poi i figli dovrebbero formare nuclei familiari autonomi completamente indipendenti, in tutto e per tutto.
Ogni individuo che trovasi nella condizione di decidere per la vita di un altro si sente investito della capacità di sindacare sul diritto di una qualsiasi persona ad operare responsabilmente delle scelte. Questo ci impedisce fortemente di crescere in una direzione civile e il percorso di “progresso” sociale, nel tempo, avviene sempre attraverso azioni di strappo, che procurano anche degli evidenti traumi. Appare dunque chiaro che, per crescere civilmente, la “logica della conoscenza” dovrà essere sostituita dalla “logica della professionalità” sul posto del lavoro. Altrimenti rimarremo uno Stato tendente all’esclusione sociale, ai privilegi e al mafiosismo o alla mafiosità. Questo si può fare finalmente educando in famiglia all’autonomia e non alla dipendenza. In questo modo potremmo avere, più avanti, una società di individui autonomi e responsabilmente indipendenti sul lavoro e non una quantità interminabile di persone insicure che non sanno prendere decisioni ed hanno bisogno dell’intermediazione di un “conoscente” per operare. Dunque uno Stato più giusto e più sensibile al riconoscimento dei diritti.
E’ sempre una scusa quella di non rendere autonomo il proprio figlio anche se non c’è il lavoro.
E’ sempre un male sociale, perché le dipendenze affettive, a qualsiasi livello, rendono patologico il sistema. La conseguenza di questa diseducazione è uno Stato di lavoratori insicuri dove la burocrazia è effetto di una mancanza di professionalità dettata dall’insicurezza e generante numerosissime ingiustizie sociali.
Fabrizio